Tribunale di Terni 27 marzo 2019 n. 137 – Sezione Civile – Dott.ssa Sara Foderaro

 

L’azione di risarcimento danni ex art. 2087 c.c. è un’azione contrattuale volta a veder assolto il presunto inadempimento da parte datoriale degli obblighi su di essa gravanti in virtù del rapporto di lavoro, quali ad esempio l’adozione di “misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. I danni risarcibili sono, pertanto, tutti quelli, patrimoniali e non, cagionati al lavoratore in conseguenza dell’infortunio o della malattia, e saranno imputabili alla responsabilità del datore di lavoro, sulla base dei canoni e del riparto degli oneri probatori di cui all’art. 1218 c.c.

Diversa è dunque la natura  dell’indennizzo erogato dall’INAIL che, d’altro canto copre, in base all’art. 13, d. Lgs n. 38/2000, il solo danno biologico (se superiore al 6% di invalidità) ed il danno patrimoniale (in caso di invalidità superiore al 16%), assumendo la natura di “assicurazione sociale” finalizzata a sollevare il lavoratore dagli eventuali effetti lesivi dell’attività lavorativa espletata, anche a prescindere da un’ipotetica responsabilità del datore di lavoro.

L’art. 13 d. Lgs. 38/2000 evidenzia la diversità tra il danno biologico (indennizzabile dall’INAIL) e l’area ben più ampia del c.d. Danno non patrimoniale, lasciando la possibilità che al soggetto residui la lesione di interessi della persona diversi da quelli espressamente indicati e tutelati dalla norma. Potrà trattarsi dunque sia di danni morali, esistenziali o da invalidità temporanea, che differiscono qualitativamente dal danno biologico indennizzabile dall’INAIL, sia del medesimo danno biologico, che tuttavia risulta suscettibile di una diversa, nonché maggiore liquidazione alla stregua delle tabelle create ed applicate dalla giurisprudenza in materia di responsabilità civile; si parla per la prima ipotesi di c.d. danno differenziale qualitatito e, nella seconda, di c.d. danno differenziale quantitativo.

Non vi è dubbio quindi che i due rimedi possano essere cumulati ogniqualvolta l’indennizzo INAIL non solo non sia idoneo a coprire tutti i danni sofferti dal lavoratore, e laddove i danni possano essere ascritti a responsabilità (anche penale) da parte datoriale; per questi danni ulteriori, definiti differenziali, il lavoratore avrà la possibilità di rivolgersi al proprio datore di lavoro per ottenerne il risarcimento.

La prova del danno non patrimoniale può essere fornita anche tramite presunzioni semplici, fermo restando l’onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio.

 

Il caso.

Il ricorrente affidatosi allo studio Crescimbeni Lavari, dopo la conferma da parte della Corte d’Appello di Perugia circa quanto stabilito in precedenza dal Tribunale di Terni, ossia il riconoscimento a suo favore dei benefici previdenziali ex lege n. 257/92 (invalidità permanente pari al 10%) in ragione ad un’esposizione ad amianto da cui è sorta grave malattia polmonare (placche pleuriche), ritiene permanga il diritto, ai sensi dell’art. 2087 c.c., ad un ulteriore risarcimento dei danni non patrimoniali nei confronti del datore di lavoro, per non aver ottemperato alle necessarie misure di sicurezza richieste dalla legge sul posto di lavoro.

Superate le questioni preliminari e riconosciuta la legittimazione passiva, la causa si è concentrata sul valutare se la malattia insorta al ricorrente fosse imputabile o meno a responsabilità della parte datoriale (essendo invece già certa l’origine professionale riconosciuta con la sentenza n. 50/2010 e non essendo stata contestata nella nuova sede la percentuale di invalidità riconosciuta). Vengono invocati dal ricorrente patrocinato dall’avvocato Maria Teresa Lavari responsabilità ex art. 2087 c.c nonché ex art. 377 del d.P.R. n. 547/55 circa le omesse accortezze dovute dal datore di lavoro nei confronti dei dipendenti per la salvaguardia della salute.

Dato atto in fase istruttoria dell’effettiva esposizione del ricorrente a rilevanti quantità di amianto (superiori a 0,1 f/l), provate testimonialmente le mansioni svolte dal medesimo, espletata apposita CTU ambientale, da cui il giudice  non ha ragione di discostarsi, è stato accertato che, in considerazione delle mansioni svolte, nonché delle condizioni ambientali in cui il ricorrente ha lavorato, egli è stato esposto per la durata complessiva di anni 19 e 3 mesi.

A fronte di tali prove ed accertamenti, parte resistente si è limitata a dedurre esclusivamente che l’esposizione del ricorrente ad amianto, in considerazione delle mansioni e dell’ambiente di lavoro in cui si svolsero, fosse del tutto occasionale e che, pertanto, non vi fosse all’epoca “percezione” del rischio da esposizione ad amianto, e che per tale ragione non sussistesse alcun obbligo sul datore di lavoro di fornire al ricorrente presidi per la protezione delle vie respiratorie, quali mascherine protettive o impianti di aspirazione.

Non vi è dunque contestazione riguardo alla circostanza fattuale dall’omessa adozione di dispositivi di protezione (individuale e non), piuttosto circa la necessità, nel caso di specie, di adottare i dispositivi in questione. Nessun danno patrimoniale viene dimostrato in giudizio.

La decisione.

Il giudice di merito non ha dubbi circa l’ammissibilità dell’azione spiegata dal ricorrente: viene ribadito dal magistrato adito quanto già noto in giurisprudenza: sebbene le due domande riguardino lo stesso evento(ossia la malattia professionale), sono fondate su presupposti del tutto differenti, mirano ad ottenere benefici eterogeni tra loro e pertanto sono legittimamente proponibili con tempi e modi diversi.

Partendo dalla pacifica (in quanto non contestata) circostanza di fatto dell’omessa adozione di dispositivi di protezione da parte datoriale, l’istruttoria è ricaduta sulla liceità o meno di tale condotta: in proposito si rileva che il CTU non ha mancato di precisare nella relazione peritale come alcuni studiosi avessero iniziato a prospettare l’associazione tra esposizione ad amianto e cancro polmonare nell’uomo già a partire dal 1935; tenute in considerazione anche le successive normative in materia, come la direttiva europea n. 477 del 1983 che stabilisce valori limite differenti per le varie tipologie di amianto, nonchè l’evoluzione della normativa italiana sfociata nella legge n. 257/1992 che prevede divieto di estrazione, uso, lavorazione e commercializzazione dell’amianto e contestuale obbligo di dismissione, il Giudicante ha ritenuto che, nel caso di specie, l’omessa adozione di idonei dispositivi di protezione potesse qualificarsi come illecita, addebitando alla parte datoriale la responsabilità della malattia insorta.

A questo punto non rimane che quantificare, sotto il profilo civilistico, il danno patito dal lavoratore a causa della patologia professionale.

Tra le parti non viene contestato il danno biologico, valutato in ragione del 10% di invalidità: parte ricorrente offre in aggiunta, prova di ulteriore danno non patrimoniale, identificato nella sofferenza morale e nella negativa incisione sulla vita relazionale, risvolti che il Tribunale ritiene comunque confermativi di quanto già individuabile sulla base di presunzioni ex art 2729 c.c. come conseguenza della patologia sofferta.

Ritenuta raggiunta la prova della sofferenza morale e del peggioramento della qualità della vita in conseguenza delle gravi lesioni subite, la liquidazione viene effettuata in via equitativa, tenendo conto dei più recenti e ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia di liquidazione del danno non patrimoniale alla persona, che prendono in considerazione l’età del danneggiato al momento dell’accertamento della patologia e la compromissione delle relazioni familiari e personali: si tratterà di un unico danno non patrimoniale comprensivo di tutti gli aspetti lesivi lamentati da parte ricorrente.

Il giudicante si rimette alle tabelle di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale: al ricorrente viene riconosciuto a titolo di danno differenziale, un importo complessivo pari a circa 3 volte il valore di quanto già indennizzato dall’INAIL.

La domanda attorea viene dunque accolta, con condanna della parte datoriale al risarcimento del danno differenziale ed alle spese di lite.

 

Precedenti.

Cass. n. 12326/2009, Cass. n. 26972/2008, Cass. n. 26973/2008, Cass. n. 12408/2011, Cass. n. 25327/2016.